Shakespeare

 
 

Nel garbuglio filologico che pongono i bellissimi Sonetti di Shakespeare (1564-1616) si avventura Gabriele Bandini in un’edizione Feltrinelli (1965, 1980) con una versione in prosa di Lucifero Darchini e in appendice un folto gruppo di traduzioni di altri autori. Scrive: “Una storia d’amore senza difficoltà non ha molte ragioni d’esser divulgata. L’epopea del quotidiano non era certo tra i temi della poesia barocca. E Shakespeare non si potrebbe illustrare con Vermeer o Chardin. Si accetti dunque la vicenda dei sonetti per quel che è, senza falsi pudori: scontata la situazione, la storia d’amore narrata da Shakespeare è tra quelle non solo più sottilmente indagate dai poeti moderni, ma è anche tra quelle nutrite della più alta dignità, qual è quella dell’umano soffrire, che riceve nei sonetti l’espressione insieme più straziante e fiera di tanta esperienza”. Ma prima di passare agli autori antologizzati, ecco una versione di Lorenza Franzin particolarmente dolce: “Devo paragonarti a un giorno d’estate? / Tu sei più amabile e moderato: / venti impetuosi scuotono gli incantevoli boccioli di maggio / e il corso dell’estate ha durata troppo breve;

Pierangela Rossi

 
 
 
 
XXII
 
Non mi convincerà lo specchio ch’io son vecchio
finché tu e gioventù siete coetanei,
ma quando in te vedrò del tempo i solchi
mi aspetterò che morte espii i miei giorni.
Ché tutta la bellezza che t’adorna
è sola degna veste del mio cuore
che vive nel tuo seno, come il tuo vive in me;
come dunque sarei di te più vecchio?
Abbi perciò, amor mio, cura di te
come io ne avrò, non per me, ma per te,
custodendo il tuo cuore, e ne avrò cura
qual tenera nutrice che un bambino guardi dal male;
non contar sul tuo cuore quando il mio sarà assassinato:
mi desti il tuo per sempre, senza restituzione.
 
Traduzione di Giorgio Melchiori
 
 
 
 
 
 
XLVIII
 
Con che animo, partendo, li ho rinchiusi,
i miei ninnoli, e con che serrature,
per trovarli, inusati, al mio solo uso,
da mani d’altri, cupide, al sicuro.
Ma tu che rendi men che nulla questi
gioielli se ti mostri, tu mio primo
conforto e ora mio cruccio, preda resti
d’ogni furfante che ti s’avvicina.
Non t’ho messo in alcuno scrigno, fuori
di quello in cui non sei, ben ch’io ti senta
qui pure: nel’asilo del mio cuore
dove tu giungi e parti a tuo talento.
Per essermi rubato, poi: se avviene
ch’è ladra anche virtù con un tal bene.
 
Traduzione di Eugenio Montale
 
 
 
 
 
 
CXIX
 
Quali bevvi pozioni delle lacrime di Sirena
stillate da alambicchi torbidi dentro come inferno,
rivolgendo speranze a paure, le paure alle speranze,
soccombente anche quando mi vidi vincere!
Quali mai commise il mio cuore errori sciagurati
mentre si presumeva come non mai augurato!
Come i miei occhi furono dall’orbita propria stravolti
in quel delirio di furiosa febbre!
Beneficio del male! Ora m’appare vero
che il meglio dal cattivo è migliorato;
che un amore crollato, ricostruito,
cresce forte, leggiadro, grande, più di prima.
Così ritorno a contentezza castigato,
e dai mali guadagno il triplo dello speso.
 
Traduzione di Giuseppe Ungaretti