Una parola di luce, di vertigine, di visione e di tragedia”: così parlava della poesia di Lorenzo Pataro uno scrittore come Daniele Mencarelli. E Pataro, che ci ha lasciato a soli 26 anni, è stato davvero un autore radicale, con un temperamento schivo e tenace, influenzato da figure come Coleridge, Celati e Benedetti, ma capace di trovare una propria strada nell’universo poetico odierno. “Il rovescio di ogni attesa è nella cura” è forse il passo più illuminante della sua raccolta Amuleti uscita qualche anno fa per Ensemble, un passo penetrante, incisivo, icastico dell’intera composizione: dietro l’inerzia o l’accidia che talvolta sigillano le nostre esistenze c’è un universo da suturare e guarire e al quale pure dobbiamo rispondere.
C’è bisogno, per ciascuno, di amuleti con cui affrontare il cammino, elementi apotropaici ai quali lo stesso Pataro aveva dedicato l’intera silloge poiché ogni nuovo anno “rovescia i nostri nomi e l’alfabeto” ed ecco ordunque la necessità di una magnetica forza centripeta. Il poeta cosentino era fragile e forte al tempo stesso, “preda” di quel daimon rappresentato dalla poesia a cui aveva dedicato anni intensi, vorticosi, sempre con quella gentilezza e ritrosia di fondo che lo contraddistinguevano facendone risaltare una voce originale a cui non erano mancato riconoscimenti importanti.
La “fatica dello stare”, scriveva: e noi lo ricordiamo così, affaticato eppur capace di lanciare una parola di verità e di luce, in questo universo così dolente e troppo spesso vittima del buio.
Federico Migliorati
L’impianto lirico di Amuleti di Lorenzo Pataro (Ensemble, 2022) è un bacino di stupore e di preghiere, giacché vi alberga “qualcosa di antico e benedetto” (p. 89). Il libro è prefato da Elio Pecora e dai meandri della sua forma, sempre composta ma disallineata, fanno capolino temi ascrivibili a un mondo antico dove ristagnano, velate, delle semi-criptocitazioni (si pensi al verso di stampo tarantiniano: “rovescia i nostri nomi e l’alfabeto“, p. 30). Sebbene i contenuti provenienti dalle reminiscenze più ancestrali vengano rimodulati continuamente, la poesia di Pataro si accamperà spesso nella grazia dell’endecasillabo. Eppure, i componimenti di questo giovane poeta sono calati nella carne viva e sempre ferita della quotidianità, in cui solo le parole – richiamandosi tra loro – costituiscono amuleti per orientarsi in una dimensione interiore, ctonia. Dunque, il poeta è “lo sciamano attorno al fuoco” che “batte il tamburo, evoca uno spirito antico, il canto lacero delle balene“. Forse, la sciamanica difesa di una poesia-talismano è una azzardata controfigura del rimbaldiano voleur de feu, le cui parole vorrebbero dirsi capaci di risarcire l’essere umano della protezione divina. Ed ecco che il lettore è presto catapultato in un universo primitivo dove il poeta non chiede altro che è libero di sfogare una serie d’impulsi sommersi. Ma stupiscono alcune immagini vigorose, tanto chiare quanto lancinanti; immagini come quella dei “morti accatastati come legna/ nelle tombe“, oppure quella delle “ceneri dei morti disperse come/ fossero amuleti per i vivi, / i vasi di maiolica e i relitti“. La poesia di Lorenzo Pataro individua da sé il suo contrappunto in alcune prose poetiche che costellano il libro.
Vernalda Di Tanna
da Consigli di lettura di Laboratori Poesia
dicembre 2022