L’oroscopo di Augusto

Il 23 settembre del 63 a.C. si teneva in Senato una riunione di estrema importanza. All’ordine del giorno c’era infatti la congiura di Catilina, un tentativo di colpo di Stato sventato all’ultimo momento dal console in carica, Marco Tullio Cicerone: sventato, ma non ancora debellato, perché il leader della cospirazione era sì fuggito da Roma, ma si diceva stesse raccogliendo truppe in Etruria, intenzionato a tentare il tutto per tutto. Quando la riunione era già iniziata da un pezzo, si vide entrare trafelato nella curia il senatore Gaio Ottavio: alla domanda sulle ragioni del ritardo, Ottavio si giustificò spiegando che sua moglie aveva partorito alle prime luci dell’alba, nella casa di famiglia sul Palatino. Capitò allora che un altro senatore, che si chiamava Nigidio Figulo e aveva fama di filosofo ed esperto di cose arcane, chiese a Ottavio l’ora precisa del parto, come se volesse ricostruire l’oroscopo del nuovo nato; e quando ebbe la risposta che cercava, fissò il collega e gli disse che in quel giorno era nato il padrone del mondo.

Storie come questa accompagnano spesso la nascita di personaggi del mito, eroi destinati a grandi imprese, leader politici di spicco o figure a vario titolo eccezionali: quelle storie esprimono infatti l’idea che il destino di un individuo fuori dal comune si annunci attraverso una serie di segni e prodigi che ne segnalano sin dal primo momento l’avvento sulla scena del mondo. In questo senso, anche l’idea secondo la quale il figlio di Gaio Ottavio era nato alle prime luci dell’alba, e dunque contemporaneamente al sorgere del sole, era tutt’altro che neutrale: quella nascita, al contrario, sincronizzava i ritmi della vita umana con quelli della natura ed evocava un’immagine di crescita e di benessere. Tanto è vero che i Romani avevano dei nomi specifici per segnalare quella circostanza beneaugurante, Lucio e Manio, derivati rispettivamente dai due termini che indicavano la luce e il mattino. Quel che è certo è che Nigidio Figulo non si era sbagliato: il bambino la cui nascita aveva costretto suo padre ad arrivare tardi in Senato era il futuro principe Augusto, l’uomo che avrebbe cambiato per sempre la storia di Roma e, in qualche misura, anche quella dei millenni successivi.

Naturalmente, tutto questo non sarebbe successo se Augusto fosse rimasto solo il figlio omonimo del senatore Gaio Ottavio, cresciuto nel piccolo borgo di Velletri; ma il ragazzo dovette dimostrare sin dall’infanzia doti che ne facevano intuire la personalità lucida e spregiudicata, non disgiunta da una buona dose di coraggio; e furono sicuramente queste
qualità a indurre Giulio Cesare, che era suo prozio per parte di madre, ad adottarlo nel testamento, trasformandolo in Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Il resto è storia: la fulminea ascesa all’indomani delle idi di marzo, che videro l’imprevista uscita di scena di Cesare; la nomina a console alla scandalosa età di 19 anni; la creazione del triumvirato costituente, che ne faceva uno dei tre uomini alla testa dell’impero; la guerra civile con l’ex alleato Antonio; la finale vittoria, che a partire dal 31 a.C. lo lasciò solo al potere.

Ma il vero capolavoro di Augusto fu la creazione di un regime politico che soppiantava per sempre la vecchia repubblica. Il tentativo era stato già di Cesare, ma questi aveva forzato i tempi, assumendo apertamente un potere assoluto: un’accelerazione cui la vecchia classe dirigente non era ancora pronta. Augusto imparò la lezione e procedette con cautela, accumulando una carica dopo l’altra e facendosi riconoscere titoli e prerogative che ne accrescevano poco a poco l’autorità, avendo sempre l’accortezza di presentarsi come il risanatore della repubblica proprio mentre operava attivamente come il suo affossatore. Quando morì, dopo una permanenza al potere durata quarantacinque anni, chiese a chi lo vegliava in quel momento supremo di battere le mani, se aveva recitato bene la commedia della vita; non poteva sapere che il sistema politico da lui inventato avrebbe retto quattro secoli e mezzo in Europa, altri mille anni a Bisanzio, i cui imperatori non persero mai il senso della loro continuità con l’antico principe romano, e fino alle soglie del nostro tempo in quella Mosca che fu chiamata la Terza Roma e i cui re portavano ancora all’inizio del Novecento il titolo di “zar”: una parola nella quale risuonava l’eco lontana del nome di Cesare, adottato duemila anni prima dal figlio di Gaio Ottavio.