Postumo era un uomo ricco: aveva una bella moglie e una bella casa, e soprattutto aveva un parco meraviglioso, ricco di alberi di ogni tipo, dei quali si prendeva cura in prima persona. A darci queste notizie sul conto di Postumo è il poeta Orazio, che all’amico dedica una delle sue riflessioni più belle sui temi a lui cari: il tempo che passa, l’incombere inevitabile della morte, il conseguente invito ad assaporare ogni attimo di gioia come un dono prezioso. E certo nessuno meglio di Postumo poteva tenere a mente questo monito: sappiamo infatti che a Roma quel nome, Postumo, era dato ai bambini che venivano al mondo dopo la morte del loro padre. Bambini che nascevano dunque già parzialmente orfani e sui quali l’ombra della fine si allungava quando ancora stavano muovendo i loro primi passi nella vita.
In un passaggio del carme, Orazio ricorda a Postumo che nessuno degli alberi che popolano il suo giardino lo seguirà nell’ultimo viaggio, con la sola eccezione degli odiosi cipressi. Si esprime in questi termini, il poeta, perché per i Romani come per noi il cipresso è una pianta legata a doppio filo all’ambito funerario, anche se questo non aveva impedito a Postumo di piantarli nel suo parco, così come non ne impedisce l’uso in quelle parti del nostro paese in cui il loro profilo elegante accompagna in lunghi filari il tracciato di una strada o lo skyline di una collina.
Di questa connotazione lugubre del cipresso la letteratura antica offre molte testimonianze. Anzitutto, gli autori latini fanno sapere che l’albero era sacro al dio che regna sui morti, così come a quella stessa divinità erano dedicate le piante ritenute sterili o quelle che producono frutti dal colore nero o rosso, e questo ci immette subito in un mondo nel quale una fitta rete di connessioni lega gli elementi della natura, piante o animali che siano, all’una o all’altra divinità: così, il pioppo è sacro a Ercole, la quercia a Giove, le rose sono il fiore di Venere e così via. Sappiamo inoltre che quando una famiglia era colpita da un lutto, sui battenti delle porte venivano affissi dei rami di cipresso, per evitare che qualcuno potesse inavvertitamente entrare in quella casa: per gli antichi, infatti, la morte e tutti coloro che con essa hanno a che fare sono portatori di contaminazione. Per questo, i familiari del defunto non possono svolgere le loro consuete attività sociali né entrare in rapporto con gli altri per non farsi veicolo di tale contaminazione.
Ma gli antichi non si limitano a spiegare che il cipresso è una pianta connessa alla sfera del lutto, si interrogano anche sulle ragioni di questa connessione. Il fatto è che quell’albero, una volta tagliato, non torna a buttare rami o radici: il suo ceppo resta inerte, incapace di generare nuova vita, proprio come accade al corpo di un essere umano una volta che abbia cessato le proprie funzioni vitali. Il rapporto del cipresso con l’ambito funerario non è dunque arbitrario, ma mette in parallelo una biografia vegetale e una vicenda umana che attraversano un percorso analogo.
Naturalmente, in un mondo come quello antico una pianta così importante non poteva non avere un suo spazio anche nel mito: si sa, del resto, che per gli antichi molti alberi sono l’esito di una metamorfosi, dal lauro nel quale si è trasformata la bellissima Dafne per sfuggire alle sgradite avances di Apollo all’albero della mirra, che porta lo stesso nome di una principessa incestuosa, al pioppo, la cui resina ricorda le lacrime piante dalle figlie del dio Sole per la morte del loro fratello Fetonte, ad altri ancora. Il cipresso non fa eccezione: prima di diventare albero era stato infatti un giovane nato nell’isola greca di Ceo, Ciparisso, così bello da suscitare l’amore di molti dèi e tra questi in particolare di Apollo, che non si stancava di stargli accanto, o forse di Silvano, il dio dei boschi e degli spazi incolti. Un giorno maledetto, però, Ciparisso aveva ucciso con la sua lancia un cervo cui era straordinariamente affezionato, scambiandolo per un animale selvatico, e questo errore imperdonabile lo aveva gettato in uno stato di prostrazione dal quale non era più riuscito a emergere, nonostante i tentativi di conforto prodigati da Apollo. Alla fine, Ciparisso aveva chiesto agli dèi, come ultimo dono, di portare il lutto in eterno: detto fatto, la sua slanciata figura si era trasformata in quella dell’albero che da lui avrebbe tratto il suo nome greco, compagno del ricco Postumo nella vita e nella morte.
In copertina Jacopo Vignali – Opera propria, Rama, CC BY-SA 2.0 fr, Collegamento