L’età tardoantica rimane tuttora poco conosciuta e considerata, spesso immotivatamente trascurata dagli stessi studiosi e appassionati di civiltà antiche. Eppure la cultura di quest’epoca si rivela densa di ricchezza e profondità, terreno fertile di scoperte in grado di nutrire gli animi di noi moderni. Tra le più significative manifestazioni che contrassegnano il pensiero del tardoantico, oggi parleremo della teurgia, fenomeno che rappresentò un sorprendente baluardo di resistenza alla diffusione del cristianesimo.
Letteralmente theoû érgon, «opera divina», il termine definisce un movimento filosofico-religioso diffuso in ambito neoplatonico, che impiegava a fini religiosi procedure proprie della magia. Il Dodds, nel suo datato ma tuttora valido saggio I Greci e l’irrazionale, che include in appendice una trattazione sul tema, afferma: «Mentre la magia volgare fa uso di nomi e formule di origine religiosa per fini profani, la teurgia adopera i procedimenti della magia volgare anzitutto per fini religiosi». Tale asserzione evidenzia l’intima interconnessione tra la sfera del religioso e la sfera del magico, di frequente ritenute in contrasto dall’opinione comune, sulla base della nota e consolidata avversione verso la magia nella mentalità greco-romana.
Secondo la tradizione, i fondatori della teurgia furono Giuliano il Caldeo e suo figlio Giuliano il Teurgo, vissuti ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio e autori degli Oracoli Caldaici, opera in esametri pervenutaci lacunosa, dal contenuto mistico-estatico di non facile interpretazione, comunque legata all’esigenza di tramandarne per iscritto il patrimonio sapienziale.
Queste fulminee e illuminanti rivelazioni in forma poetica furono parzialmente raccolte nel XV secolo dall’umanista Gemisto Pletone, che le attribuì alla tradizione zoroastriana; la prima vera e propria edizione arrivò verso la fine dell’Ottocento grazie al lavoro del filologo W. Kroll. In seguito, un importante studio interpretativo, opportunamente collocato nel contesto culturale di riferimento, è stato realizzato da H. Lewy nella sua opera degli anni Cinquanta del secolo scorso Chaldean Oracles and Theurgy. Tra le più recenti edizioni, quella curata da Des Places per Les Belles Lettres (1971) e, in Italia, il lavoro di Angelo Tonelli (1995).
L’obiettivo generale del teurgo era l’elevazione della propria anima per mezzo di una sinergia tra la sacralità delle parole e la prassi del rito. Entro la prospettiva della ricerca di una felicità ante mortem, si perseguivanel contempo la salvezza del corpo; «di un uomo sacro, gli eteri hanno edificato il corpo»: l’iniziato alla teurgia si distingue per una corporeità differente rispetto all’individuo comune, una fisicità di rango superiore, spiritualizzata.
L’insieme delle pratiche teurgiche, dette anche «opera del fuoco», consisteva in rituali volti all’evocazione delle divinità al fine di utilizzarne i poteri, sottraendosi al «gregge della fatalità». Questa sýstasis si otteneva tramite la pronuncia di nomi magici, i famosi onómata bárbara, che non dovevano essere cambiati; sembra che Giuliano il Caldeo avesse congiunto in questo modo il figlio con tutti gli dèi e con l’anima di Platone. Anche il filosofo neoplatonico Proclo, da quanto si apprende nella sua biografia scritta dal discepolo Marino, poté sperimentare l’unione teurgica.
Il fuoco rivestiva un ruolo centrale nel rito, a partire dal fondamento dottrinale per cui «tutte le cose sono scaturite da un solo fuoco».
La ricorrenza del verbo noéo (accostabile al latino intueor) nei testi rinvia ad una modalità conoscitiva basata sull’azzeramento delle facoltà intellettive ordinarie, da sostituirsi con il «fiore dell’intuire». I frammenti pervenuti consentono inoltre di delineare i tratti di una cosmologia complessa, afferente a un sistema triadico dominato da una monade.
Le modalità operative dei teurgi erano sostanzialmente due: la prima, la cosiddetta telestiké, si occupava di costruire, consacrare ed animare statue per ottenere oracoli. A questo fine si impiegavano pietre, erbe, animali, profumi che agivano come simboli in base alla simpatia cosmica, cioè all’affinità tra gli esseri animati e inanimati e le entità divine. Nell’Asclepius si parla di statuas animatas, sensu et spiritu plenas per predire il futuro e arrecare o curare malattie. Particolarmente significativa doveva essere la consacrazione e animazione dell’immagine della dea Ecate. Massimo, allievo della scuola di Giamblico, si dedicava a tale pratica in un tempio di Efeso; qui anche il futuro imperatore Giuliano l’Apostata, restauratore del paganesimo, venne iniziato alla teurgia. Nella consacrazione della statua di Ecate era fondamentale l’impiego di una trottola magica (íynx) che veniva fatta ruotare recitando formule stabilite; ciò avrebbe provocato l’epifania della dea, spesso sotto forma di fiamma. Va detto, per inciso, che Ecate risulta centrale nel pensiero degli Oracoli, nei quali è leggibile come principio psichico-animico scaturito dal Padre.
Se si considera che ricette per costruire e animare immagini sono frequenti pure nei Papiri Magici Greci, si comprende come il confine con la magia volgare, caratterizzata da finalità profane, potesse essere piuttosto labile nella realtà dei fatti. Secondo quanto riferito dallo storico Zosimo, ad esempio, il teurgo Nestorio nel 375 d.c. salvò Atene da un terremoto consacrando una statua dell’eroe Achille.
Il secondo procedimento proprio della teurgia era la trance medianica, l’ingresso di un essere sovrumano nel corpo del medium, un’alterazione di coscienza che poteva essere accompagnata da apparizioni luminose. Un docheús (il medium) parlava con la voce di un dio o di un ente sovrumano in presenza di un sacerdote. Potevano comparire divinità, demoni, angeli, forme umane o animali, mutevoli e indefiniti segni luminosi nella fiamma. Era anche possibile stringere un patto con entità che garantissero all’iniziato la loro protezione al momento del trapasso, affinché gli spiriti malvagi restassero a distanza dalla sua anima.
È verosimile che agli inizi del IV sec. d.c. i teurgi godessero di notevole credibilità e privilegi presso i palazzi del potere. Lo scrittore cristiano Eusebio di Cesarea, con indubbia faziosità, lascia intendere che furono questi «ciarlatani e maghi» ad ispirare la persecuzione dell’imperatore Massimino Daia. Ciò che importa è evidenziare come la teurgia fosse all’epoca una pratica diffusa e di tutto rispetto, tanto da poter essere considerata la religione di Stato del tardo impero prima della definitiva affermazione del cristianesimo.
Una fonte rilevante per la conoscenza della teurgia – sia pur in chiave palesemente apologetica – è rappresentata dal De Mysteriis di Giamblico di Calcide (IV sec. d.c.), opera già citata in questa rubrica a proposito dell’indagine sul demonico.
Giamblico compie una differenziazione tra la teologia (la scienza del divino), la teurgia (la prassi religiosa) e la filosofia. Ciascuno dei tre ambiti, pur collegato agli altri, possiede una specificità propria. La teurgia, tiene a precisare l’autore, è religione, e i teurgi sono sacerdoti volti a stabilire la comunione con la divinità. Gli errori nella procedura teurgica portano alla manifestazione di spiriti bugiardi e ingannatori, usualmente attratti da azioni magiche o paramagiche; queste entità assumono l’aspetto delle classi più elevate, ma non sono altro che esseri millantatori. La visione degli dèi non ha nulla a che vedere con le immagini prodotte dalla stregoneria, che sono solo artifici, immaginazioni senza sostanza. Da notare che Giamblico impiega il termine goeteía per indicare la stregoneria, góes per il mago, gli stessi vocaboli con cui nell’età classica si era soliti bollare gli indovini impostori.
Riguardo la questione delle immagini da animare, si compie la doverosa distinzione tra coloro che agiscono con arte magica e quanti seguono l’arte teurgica: i primi non producono le vere forme del divino, ma solo vuote apparenze, mentre i secondi operano conformemente alla telestiké.
Un’altra problematica affrontata concerne le presunte minacce violente rivolte agli dèi; minacce di lacerare il cielo, di svelare i segreti di Iside o i misteri di Abido (località dell’alto Egitto dove si credeva fosse sepolta la testa di Osiride), di fermare la barca di Osiride (cioè il corso del sole), di consegnare a Tifone le membra sparse di questo dio. L’autore del De mysteriis tiene a precisare che il tipo di minacce cui ci si riferisce appartiene al ritualismo religioso. Tutt’altra cosa è quel formulario violento con cui i maghi tentano di costringere gli dèi a piegarsi al loro volere. Il teurgo può servirsi delle minacce solo per dar prova della potenza ottenuta grazie all’unione con le divinità. In ogni caso, esse vengono rivolte non agli dèi, ma ai demoni aerei e a quelli intorno alla terra, i quali, avendo cura dell’ordine universale, non sopportano che esso sia sconvolto.
Lo stesso distinguo viene fatto poco oltre in merito all’impiego dei nomi barbari, privi di significato. Il senso di questi nomi non è esprimibile a parole, ma è riconducibile a un simbolismo che innalza il teurgo alla realtà immateriale. Gli Egiziani e gli Assiri, considerati popoli sacri, hanno appreso per primi gli appellativi delle divinità; per questo la loro lingua è particolarmente adatta ai riti, mentre l’incessante inventiva lessicale dei Greci rende inefficaci le preghiere. È chiaro, quindi, che l’utilizzo di questi nomi è rigorosamente religioso e non magico.
Vale la pena evidenziare, in ultimo, che anche la ricerca della felicità (eudaimonía) è pensata dal Calcidese in una prospettiva religiosa: la felicità risiede nella conoscenza del divino e nell’unione con esso, da conseguirsi ante mortem, nel corso dell’esistenza terrena. Si apre qui una visuale inedita rispetto al pensiero greco tradizionale: tutti gli esseri superiori, spiega Giamblico, si rallegrano quando quelli inferiori diventano simili a loro. La filosofia religiosa del tardoantico capovolge l’antico politeismo, fondato sulla giusta distanza tra gli uomini e gli dei: «Non è sapienza il sapere, avere pensieri superiori all’umano», ammoniva il tragediografo Euripide nelle Baccanti. Con il tramonto della pólis si sgretola a poco a poco il valore del collettivo nel tessuto sociale; un divino sempre più astratto e indifferenziato, meta ideale per pochi eletti, si fa metafora di un potere ormai distante dall’uomo comune.
La teurgia viene così a identificarsi con la religione pagana tout court, secondo una tendenza diffusa all’epoca presso le persone colte e vicine all’entourage politico. Pur raccogliendo l’eredità del politeismo antico, il credo teurgico ne stravolge il senso, modificando nel profondo, come si è visto, l’etica del rapporto umano/divino. Se la teurgia accoglie molte procedure tipiche della magia volgare, a differenziarla da quest’ultima è la finalità religiosa: il mago persegue vantaggi di ordine pratico, il teurgo aspira all’unione con gli dèi. Si ripropone, a ben guardare, quella dicotomia tra la magheía come scienza del divino e la goeteía come stregoneria, in voga nell’età della pólis. Proprio come un mago persiano, babilonese o egiziano, il teurgo è sacerdote, filosofo e sapiente.
Ritengo che la dottrina teurgica espressa nei folgoranti versi degli Oracoli caldaici rechi al mondo contemporaneo una significativa testimonianza, entro il quadro di una spiritualità intesa nella visuale di Metzinger: un atteggiamento epistemico antidogmatico, volto alla conoscenza e alla comprensione profonda. Condivisibili e attuali al nostro tempo, l’aspirazione ad una felicità intramondana, la ricerca della connessione con il divino interno all’uomo, identificabile con il Sé, la speranza del trascendimento di zolle di ego miserrime e limitate. Altrettanto vivo suona l’auspicio che la poesia si configuri ancora come rivelazione del vero, voce ierofanica, divergente, dentro e oltre il pensiero, luce dalle forme sempre cangianti, «fiore dell’intuire».
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Éd. Des Places (cur.), Oracles chaldaïques, Paris 1971.
E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Milano 2009.
Giamblico, I misteri degli Egiziani, a cura di C. Moreschini, Milano 2003.
G. Kroll (cur.), De Oraculis Chaldaicis, Breslau 1894.
H. Lewy, Chaldean Oracles and Theurgy, Paris 1978.
A. Tonelli (cur.), Oracoli Caldaici, Milano 1995.
Nota al titolo
«…Non si deve coglierlo con veemenza, quell’intuibile, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell’intuibile; e non devi intuirlo con intensità, ma – recando il puro sguardo della tua anima distolto – tendere verso l’intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, poiché al di fuori dell’intuire esso dimora» (A. Tonelli, Oracoli Caldaici, Milano 1995, fr. 1, p. 25).