Con Effe – Nicola Manicardi

Canzoniere d’amore e resti, Con Effe (Qed Edizioni, 2024, collana Stèresis) di Nicola Manicardi persegue, prima nell’attesa e poi nel desiderio della sfaccettata figura «Effe», un «volo / dentro e fuori / come fa l’ago col filo», attraversando il linguaggio del dolore quotidiano.

Il rapporto con l’Altro assurge a «singolo plurale» nell’incontro autentico, «nell’area» vulnerabile delle «nostre ferite» dove non esiste rammendo ma l’avvicinamento di «due lembi»: il cielo e la terra, la mano e il vuoto. Versi velati di malinconia toccano la concretezza della lontananza e del pensiero, cercano nel buio lo scavo di un sentire, avviando una riflessione umana e insieme metapoetica.

«Effe», iniziale di un nome scritta come si pronuncia, volutamente aperta a varie interpretazioni, costituisce il cuore dell’intera raccolta: la «voce» del «silenzio». Donna, musa o poesia, è un invito a leggere l’umiltà delle piccole cose con empatia e attenzione. Nell’ossimorico «“qui” tra noi» della «trasparenza», il «campo è lo sguardo» che aspetta e cura la crescita di un seme in grado di farsi visione e dialogo. Lungo il dispiegarsi del libro, la tensione insita nella parola evolve «come il bulbo che ha rotto la terra / / ed è fiore», schiudendo a poco a poco l’intimità dell’invocazione diaristica alla lettera.

Le quattro sezioni (Un giorno ti porterò nel mio sogno, Sono dentro la tua planimetria, Ti metto un bacio dove non ci sei e Terrò il silenzio sulla mia mano) riecheggiano l’una nell’altra mediante gli stessi loro titoli, che ripresi si trasformano in versi, e immagini riaccese a distanza. Nel percorso dalla caduta alla rinascita, la mancanza raddoppia il gesto: occhi, labbra, mani, oggetti domestici («posate», «tazzine», «bicchieri») e oggetti dell’altrove («trolley», «valige») custodiscono come un rito il «due», l’«abbecedario del noi».

La prima sezione, Un giorno ti porterò nel mio sogno, ruota intorno alla solitudine e alla promessa. Tra «giochi rotti», «risme di ricordi / e nostalgie», rimane forte la spinta al «suono vero delle cose». Di fronte alla domanda d’amore che nutre il mondo, gli affetti disegnano cerchi e stagioni, fino a rendere il sogno abitazione e racconto. Scongiurando l’«inascoltato», la casa si apre per accogliere la musica del vivere, un «respiro» diverso dal proprio:

«È sulla curva dello stelo secco
tra la pausa senza virgola
del canto di cicale.
È ora. Prima ero in centro.
In disparte.
 
Due giovani:
violino e violoncello.
[…] La domanda aperta sul cielo sgombro.
Il rientro. Aprire la porta di casa.
Ascoltare un respiro che non sia il mio.
 
Salutare questa strana felicità.»

Nella seconda sezione, Sono dentro la tua planimetria, l’invisibile diventa luogo e corpo da esplorare. «Il noi è un dolore indicibile. / Riflesso e carnale attraversa / incurante del dopo, continua»: la mappa si trova incisa negli abissi di un silenzio a specchio. Contro la desolazione e la sospensione del nulla la «carta per terra / dove nessuno ha scritto», «poesia in bianco», indica la direzione di un possibile inizio. Pezzo dopo pezzo, un profilo si traccia nella «luce»:

«Vorrei cadere
dentro alle tue allegrie.
Nel verso tra gli zigomi
sul tuo labbro superiore
quello alto della mia luce.»

L’attesa dell’Altro si configura come un viaggio sinestetico per mare nella terza sezione, Ti metto un bacio dove non ci sei. La «navigazione dagli occhi» sonda lo spazio poetico del «non detto», un tacere che rinnova lo sguardo. Nella differenza tra la «virgola» e la «secca di un punto», l’orizzonte si estende al cambiamento e alla rinascita:

«Come una gomena è la parola seguente
in questo luogo del silenzio di una pausa.
[…] Mare che tu sei memoria.
Mare che mi vivi le interiora.
Mare liquido e amniotico.
Ascolta il grido dell’universo.
Creami pace con la virgola
ma non portarmi nella secca di un punto.
 
Voglio ancora navigare dagli occhi.»

«Effe», parola pulsante da cui partire e a cui destinare, appare solo nell’ultima sezione, Terrò il silenzio sulla mia mano. Ora l’amore è un «cielo» uguale a quello di «ieri: / un vedo non vedo che / inizia a guardare». E qualcosa di personale si riconosce nella dimensione collettiva, un «restiamo». Il desiderio abbraccia una profondità civile.

Il «due» non è un confine, ma il passaggio che amplia la prospettiva dell’uno agli «anelli d’acqua / che si moltiplicano», a una tavola apparecchiata per «due oppure cinque». È il «filo» che ci racconta sulla «tela» colorata dell’esistere:

«Effe
adesso nel cielo un aereo è in volo.
Come un ricordo del passato
mi ha fatto sorridere.
È tornato alla luce tra le stelle.
Questo è il quadro della vita.
Ricordi le nuvole ieri?
E la curva della terra?
Ora il suono è visibile
e l’aereo non lo vedo più.
È rimasto l’ago e il filo
sulla nostra tela.»

Nell’aderenza dei versi al movimento di tessitura, l’assenza diventa intensa presenza, imprime il segno del «suono», avanti e indietro nel tempo, dentro e oltre il visibile. Così ciò che manca ritrova futuro nella «luce tra le stelle».

Elisa Nanini

 
 
 
 
Oggi è tutto così domenica.
Il feriale dentro a una nuvola.
 
Ora riposa lo scalogno sopra al legno.
C’è una domanda dentro a un calice di rosso:
due messaggi non risposti di mia figlia.
 
È domenica nel pensiero e nel perimetro
dove l’area la cammino come una partenza.
 
Oggi è tutto così domenica anche nella goccia
che tiene il petalo o il suo viceversa.
 
Tengo in mano la polvere e la terra
è lì che sento che il colore ha una vita.
 
Il fiore bianco diverrà una bacca rossa.
Sto andando a prendere Martina.
 
A te Effe dico da lontano il mio qui
come il bulbo che ha rotto la terra
 
ed è fiore.