Il demone anima, protettore e custode dal pensiero arcaico a Socrate

In due precedenti contributi (QUI e QUI) ospitati in questa rubrica ho avuto modo di presentare la figura del daímon nel ruolo di intermediario e mediatore tra due diversi livelli, tra la sfera del sensibile e quella del sovrasensibile. Torno oggi ad occuparmi di questa affascinante e multiforme entità nella sua altrettanto basilare funzione di anima, protettrice e custode degli esseri umani. La ben nota rappresentazione del demone di Socrate, onnipresente spirito guida del filosofo ateniese, di cui ci parla Platone, sarà punto di arrivo di una disamina sommaria che prenderà le mosse dal pensiero di età arcaica, passando attraverso le teorie pitagoriche.

È assai probabile che in origine i daímones fossero rapportabili a divinità ctonie, protettrici della terra e della fertilità. Poiché da queste dipendeva il sostentamento degli uomini, di qui sarebbe derivata la concezione del demone custode di un gruppo o di un singolo individuo, di cui si credeva determinasse la sorte. Lo stesso etimo del vocabolo pare rapportabile a daís, “parte”, “porzione”, ovvero destini singoli e specifici attribuiti ad un essere umano. Nei confronti delle primitive dottrine religioso-popolari andrebbe, quindi, il debito della riflessione filosofica, che resterà imperniata sull’equazione demone anima (tanto dei vivi quanto dei defunti) e, per esteso, ente superiore custode dei viventi.

Una organica esposizione demonologica ci è fornita nel VII sec. a.c. da Esiodo in Le opere e i giorni: la prima stirpe umana, annota lo scrittore, è la stirpe aurea dei tempi di Crono, che dopo la morte sono diventati demoni puri terrestri, custodi dei mortali; essi hanno cura della giustizia e delle azioni malvagie, sono vestiti di nebbia e sparsi ovunque sulla terra. La seconda stirpe, argentea, è assai peggiore della prima; dopo la morte, questi demoni sono chiamati mortali beati sotterranei. Dopo una terza stirpe, ancora inferiore, la quarta è quella degli eroi (op. 122-73).

La classe demonica è perciò costituita dagli spiriti dei morti, investiti del compito di custodire i viventi; essi si inseriscono in una precisa gerarchia determinata da qualità morali (dal migliore al peggiore); la loro funzione sembrerebbe rivolta più ad una collettività indeterminata che ai singoli individui. Se, come ha osservato T. Mantero, è vero che Esiodo, testimone di un dato solo religioso, non ha ancora coscienza della medietà di questi esseri, è altrettanto vero che la gerarchizzazione di questi prepara la loro condizione mediana e il conseguente ruolo di mediatori, destinato a costituire il fulcro della tradizione platonica.

Alla teoria del demone anima deve ricondursi, in ultima analisi, l’intera demonologia del pitagorismo antico. Da un famoso frammento di Alessandro Poliistore, le Memorie pitagoriche immaginavano l’aria pullulante di anime chiamate demoni ed eroi, che inviavano sogni e segni ai viventi. Apprendiamo da una testimonianza di Plutarco nel De genio Socratis che Simmia di Tebe, discepolo di Filolao, considerava daímon il vero nome dell’anima. Dalla lettura di un frammento dello stesso Filolao, è possibile istituire un nesso tra l’anima demone e la dottrina della metempsicosi, centrale nel pensiero pitagorico: la psyché è vincolata al corpo in conseguenza di una colpa; non a caso la credenza nella trasmigrazione delle anime occuperà un ruolo non trascurabile nella demonologia di Empedocle e di Platone.

La leggenda che ben presto prende corpo intorno alla figura di Pitagora fa del filosofo di Samo un essere superiore all’umano, frutto dell’unione tra Apollo e Pitaide (Porfirio, Vita pitagorica 2); come ricorderà Giamblico (Vita pitagorica 30), i Pitagorici consideravano il loro maestro uno dei demoni che abitano nella luna, buoni e pieni d’amore per gli uomini. Si delinea così un’importante novità rispetto alla visione esiodea: lo stato di daímon non resta più confinato in un lontano e irripetibile tempo mitico, ma può essere raggiunto dall’uomo che coltivi la virtù filosofica, il bíos pythagorikós. Di nuovo Giamblico riporta l’informazione di Aristotele secondo cui il “tipo pitagorico” si collocava a metà tra dio e l’uomo; di qui, come rileva Detienne, si può dedurre la sinonimia tra “uomo divino” e demone,espressioni che stanno ad indicare una condizione mediana e liminale. Sulle qualità etiche dell’individuo richiama pure l’attenzione un passo delle Memorie pitagoriche riportato da Diogene Laerzio: «Gli uomini hanno un demone buono, e quindi sono felici, quando tocca loro un’anima buona» (Diog. Laert. VIII 32).

Agli assunti demonologici dei seguaci di Pitagora si avvicinano altri filosofi dei secoli VI e V: nel frammento 73 di Eraclito leggiamo che l’uomo inesperto è solito prestare ascolto al demone, come un bambino ad un uomo: il daímon è perciò un’entità legata all’individuo, gerarchicamente e moralmente superiore, che ammonisce con buoni consigli. Per Empedocle i demoni sono anime inserite nella ruota incessante della trasmigrazione, che si trovano, prima di terminare il loro ciclo, a rivestire aspetti di uomini, piante, animali; l’obbligo di reincarnarsi dipende dall’onta dei crimini commessi. Dopo molte incarnazioni queste anime muoiono, cioè vengono assorbite nella divinità universale.

Nel IV sec. a.c. l’interpretazione del demone come entità personale pare profilarsi in Aristosseno di Taranto (presso Stob. I 6, 18). A parere dei pitagorici suoi contemporanei, il demone ispirerebbe consigli rivolti sia al bene che al male; una preghiera dei Carmina aurea (61-62 Van der Horst), databili probabilmente allo stesso IV sec., implora Zeus di rivelare agli uomini la natura del loro demone, liberandoli così dai mali.

Il più celebre esempio di essere demonico personale è senza dubbio il daimònion di Socrate, di cui ci parlano Platone nell’Apologia di Socrate e Senofonte nei Memorabili; la voce sovrumana interna al filosofo diventerà una sorta di topos letterario nei secoli a venire, soprattutto quando, in età medioplatonica, costituirà il soggetto di opere di carattere morale-parenetico di non trascurabile importanza per la storia della demonologia.

Da evidenziare, innanzitutto, l’utilizzo del termine daimònion in luogo del consueto daímon: il demone di Socrate non sarebbe, in effetti, tanto un’entità personale, quanto piuttosto un evento, un accadimento: ciò consente, tra l’altro, di difendere Socrate dall’accusa di avere introdotto nuove divinità. Il postulato dell’impersonalità del demonico si adattava alla mentalità e alle credenze religiose arcaiche, a partire dalla concezione omerica del daímon come entità superiore indistinta, sfumata, talvolta identificabile con la sorte individuale: «O fortunato Atride, uomo felice e dal buon demone» (Il. III 182).

Mentre Senofonte attribuisce a questo elemento una funzione positiva di esortazione e comando (mem. I 1, 2-4; IV 8, 1), nell’ottica di Platone il segno demonico assume una funzione inibitoria nei confronti di un’azione che il filosofo sta per compiere o di parole che sta per pronunciare: lo avrebbe dissuaso, ad esempio, dal partecipare alla vita politica. In generale, la mancata comparsa del daimònion è indice della positività dell’azione che si sta per compiere: anche il silenzio del demone è segno, fenomeno che rinvia ad altri eventi e processi da svelare tramite una corretta interpretazione.

Così, nell’ultimo atto dell’esistenza di Socrate, il fatto che la voce demonica non si sia opposta è indizio che ciò che sta accadendo è un bene e che non giustamente si reputa un male la morte (Plat., apol. 39c-40b).

Il demone in quanto carattere, vocazione, destino, compagno segreto scelto dall’anima di ognuno – per rifarci al celebre assunto di Hillman in Il codice dell’anima – è figura ormai radicata nel nostro immaginario e fonte di suggestioni, rappresentazioni, narrazioni sempre più variegate. Che venga letto come benevolo spirito protettore o come guida verso un’intima comprensione di noi stessi, il daímon resta emblema di una non scontata esortazione a quegli interrogativi che ci accompagnano da sempre e sempre: da dove veniamo, chi siamo, dove stiamo andando.

Francesca Innocenzi

 
 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

G. Cambiano, Daimonion e diabolé nel ritratto platonico di Socrate, in E. Corsini, E. Costa (cur.), L’autunno del diavolo. Diabolos, dialogos, daimon, Bompiani, Milano 1990, pp. 15-22.

M. Detienne, De la pensée religieuse à la pensée philosophique. La notion de daimon dans le pithagorisme ancien, Les Belles Lettres, Paris 1963.

J. Hillman, il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997.

H. Maier, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia, La Nuova Italia, Firenze 1990.

T. Mantero, La demonologia nella tradizione greca, Tilgher, Genova 1994.