Nel contributo del mese scorso (Il demone anima, protettore e custode dal pensiero arcaico a Socrate, QUI) ho tentato di tracciare un excursus delle riflessioni intorno al demone anima, protettore e custode, dalle origini a Socrate. Oggi andremo a esplorare, con un salto di alcuni secoli, le idee che plasmano la medesima figura in età imperiale, con particolare riferimento a due autori di spicco nella demonologia antica: Plutarco e Apuleio.
Anche in questa epoca (I sec. a.c – III sec. d.c. circa) le riflessioni filosofiche sembrano dipendere in buona parte dalle credenze di matrice religiosa e popolare. Vi è da un lato chi, come Filone di Alessandria, Apuleio e Plotino, sulla scia del Platone maturo (il filosofo del Fedone e della Repubblica), opera una distinzione tra i demoni custodi e gli spiriti dei morti; e dall’altro chi, come Plutarco, tende a sovrapporre le due categorie, in sostanziale fedeltà alle idee religiose arcaiche espresse da Esiodo.
Già Crisippo e gli esponenti della Stoà antica avevano avallato la credenza in un demone personale incaricato di guidare e assistere l’anima umana per tutta la vita. Celebri eruditi e letterati avevano mostrato un notevole interesse per l’argomento: apprendiamo da Agostino che Varrone definiva il genio individuale come anima rationalis e, nel contempo, come divinità capace di generare ogni cosa. Questo nume tutelare della persona sarebbe stato, secondo Orazio, propizio (albus) agli individui lieti, sfavorevole (ater, sinister) ai malinconici (epist. II 2, 187-189).
Più tardi, Epitteto e Marco Aurelio assimileranno questo demone all’anima intelligente, una particella di nous, senza tralasciare la funzione di genius, entità extraumana cui si devono protezione, ubbidienza e riconoscenza.
Nell’ambito del platonismo di età imperiale – il cosiddetto medioplatonismo – è imprescindibile il pensiero di Plutarco, il quale inserisce la demonologia in quel processo di assimilazione al divino già preconizzato da Platone nel Teeteto. Per lo scrittore di Cheronea – che si esprime al riguardo soprattutto nel De Iside et Osiride, nel De defectu oraculorum e nel De facie in orbe Lunae – l’anima umana compie un progressivo percorso di omoíosis che passa obbligatoriamente attraverso la fase del daímon. Così alcune divinità della religione greco-romana ed egiziana (Iside, Osiride, Dioniso, ma anche l’eroe Eracle) sarebbero state un tempo demoni buoni, poi innalzatisi di livello a motivo della loro virtù. Questa evoluzione può realizzarsi solo in conseguenza di una buona condotta: se le entità demoniche non riescono a dominarsi e si abbandonano a passioni come l’invidia o l’ira, scendono di grado e indossano di nuovo corpi mortali. Perciò il trapasso del demone, esemplificato dal celebre racconto della morte di Pan, non consiste in un annientamento, bensì nella liberazione dell’elemento psichico per la trasformazione nel divino, o, al contrario, verso la reincarnazione. Il pensiero plutarcheo si sviluppa quindi a partire dalla credenza nella metempsicosi, già anticamente diffusa presso i pitagorici, i platonici e gli orfici; determinante può essere stata la riflessione su Empedocle (ripetutamente citato da Plutarco), che reputava meta finale dell’evoluzione del demone-anima il riassorbimento nella divinità universale. Tale dottrina, poi, si presta con facilità a finalità apologetiche: quando nei miti gli dèi assumono comportamenti indegni, o si rendono protagonisti di atti di violenza (come nell’episodio dell’uccisione di Pitone a Delfi da parte di Apollo) ciò vuol dire che essi erano ancora daímones.
Il De deo Socratis è uno scritto interessante e in buona parte originale, in quanto Plutarco mostra di prendere le distanze non soltanto dall’opera di Platone, ma anche da altri autori medioplatonici a lui cronologicamente vicini (soprattutto Filone e Apuleio). Se, infatti, Platone, Filone e, come vedremo tra poco, Apuleio tendono ad attribuire al demone custode l’appartenenza ad un ordine demonico superiore, ben distinto dalle anime dei defunti, l’autore di Cheronea assimila l’arcaica formulazione esiodea alla filosofia dell’assimilazione al divino: ne consegue che «i demoni che hanno cura degli uomini», secondo l’espressione di Esiodo, sono quelle anime per sempre svincolate dal corpo, non più obbligate a rinascere; sembra plausibile identificarle con quelle entità destinate per buona condotta ad approdare allo stadio di dèi.
L’obiettivo di Plutarco in questo scritto è definire la natura dell’essere demonico che seguiva costantemente Socrate: più che una visione, esso era forse la percezione di una voce o di una forma simile a quella che avviene talvolta in sogno, che aderisce alla mente con il solo significato; nei momenti in cui Socrate era incitato o trattenuto dal daímon, la sua mente e la sua anima erano mosse da una mente e un’anima superiori e più divine, senza alcun bisogno di connotazioni verbali. Questo demone, annota lo scrittore, è un elemento esterno all’uomo, puro e immune da corruzione: la maggior parte degli individui lo chiama intelletto, ritenendo erroneamente che sia interno a loro.
Diversamente dal suo omonimo plutarcheo, il breve trattato di Apuleio De deo Socratis denota, nel complesso, scarsa originalità e l’evidente volontà dell’autore di conciliare credenze tradizionali del mondo romano con gli insegnamenti di Platone e dell’Antica Accademia. Così il retore di Madaura, rifacendosi a Senocrate, precisa che il termine daímon, o meglio, il suo corrispettivo latino, genius, designa anche l’animo umano ancora nel corpo: perciò le persone felici sono eudaimones, perché il loro demone, cioè il loro animo, è buono e perfetto in virtù, e generato con l’uomo stesso. L’appellativo lemur indica invece lo stato dell’animo umano che ha ormai terminato il sevizio militare nella vita. Quei lemuri che hanno vissuto con giustizia e prudenza, come Anfiarao, Osiride, Esculapio, possono comunque definirsi dèi: con quest’ultima asserzione Apuleio si avvicina notevolmente alla dottrina plutarchea dell’assimilazione a dio. Andrebbe in ogni caso tenuta presente l’originaria connessione, di natura religiosa, tra anime defunte, eroiche, ctonie, e figure mitologiche riconducibili a un divino lievemente inferiore: è anzi possibile che nella formulazione medioplatonica dell’omoíosis siano state decisive antiche credenze religioso-popolari, già assimilate dal pensiero pitagorico.
Nell’esposizione intorno a una diversa specie di daímones l’autore si appella esplicitamente all’autorità di Platone (senza tralasciare Aristotele e i Pitagorici), dimostrando di voler evitare di distanziarsene: da quel genere di demoni molto più elevati per dignità e sempre liberi dal corpo provengono le entità protettrici dei viventi, e custodi del giudizio supremo post mortem. Il demone socratico, in particolare, sarebbe intervenuto solo per proibire qualcosa e mai per esortare, in quanto le esortazioni non sarebbero servite a Socrate, uomo perfetto. È probabile che egli vedesse anche con gli occhi i signa, le sembianze del proprio demone; Aristotele attesta infatti che i Pitagorici si meravigliavano se qualcuno affermava di non avere mai visto il daímon.
Si possono evidenziare qui alcune sostanziali difformità rispetto alla teorizzazione del demone-anima di Plutarco: innanzitutto Apuleio, a differenza dello scrittore di Cheronea, colloca il demone custode su un piano distinto e superiore rispetto alle anime che un tempo furono incarnate, allontanandosi in questo aspetto dalla tradizione esiodea ed avvicinandosi a Filone di Alessandria; se poi si considera che nella schiera delle entità protettrici viene inserito Amor (appellativo latino di Eros), si deve concludere che, come l’angelo della teologia mosaica ellenizzata dall’Alessandrino, il genius di Apuleio racchiude in sé i due ruoli di mediatore e custode. In secondo luogo, l’autore di Madaura presta maggiore attenzione al lato visivo e sensoriale dell’epifania demonica di quanto non faccia Plutarco, e resta fedele alla fonte platonica che attribuiva al demone solo una funzione inibitoria, escludendolo da ogni possibile azione esortativa.
Per Apuleio il culto del demone-anima corrisponde al sacramentum, al sacro impegno della filosofia, la ricerca del vero e dell’essenza. Accolgo di buon grado questa suggestione nel congedarmi da questo sommario compendio sul daímon, ma non certo dalla sua ala protettrice, impalpabile e necessaria. È a lui che mi rivolgo con fiducia quando mi sembra di aver perso la bussola, quando l’estraneità mi invade, quando mi vedo cadere nel vortice della disgregazione. Perché il risvolto luminoso di ognuno di noi è un tassello del migliore dei mondi possibili; questo, almeno, mi piace pensare.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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