Il giunco e la statua (Vydia Editore, 2024) è il terzo volume di versi di Antonella Palermo, dopo Le stesse parole (2012) e La città bucata (2018). La poetessa con questa nuova opera dimostra di seguire un percorso originale e personale di ricerca, affidandosi alla materia impalpabile, ma concretissima della parola poetica. Nel primo volume la normalità è abbagliata da illuminazioni improvvise di senso. Nella seconda raccolta la lingua assume una sua consapevolezza e “il dito sulla mappa” traccia una geografia, mentre l’io lirico si va dissolvendo accogliendo la comunità, il voi. In questa nuova opera l’esperienza di conoscenza non è soltanto formale, ma sostanziale, aprendo a una più chiara visione. C’è una realtà prosaica, di fatti, cose, persone che abitano il mondo e che la poetessa incontra e accoglie, quindi prima di tutto riconosce. Diventa la sua una poesia di oggetti, cioè di materia reale, una materia che conserva significati, memorie, anche quando si propone in maniera quasi stilizzata. E allora vediamo le cose nell’ombra, nel loro calco e le distinguiamo per differenza, o per adesione. La prima fisicità tangibile dell’io è necessariamente il corpo, che si incontra nell’altro, e con grande intensità nella figura del padre malato. Un archetipo ineludibile che significa anche la chiamata a sostenere una storia, un legame viscerale con le cose del mondo prima e attorno a noi. Dal quotidiano, abitato da queste presenze, le luci e le ombre conferiscono profondità all’immagine e traducono la verità fattuale dell’esistenza. Ma non solo. Se osserviamo la vita non possiamo fare a meno di specchiarci nella sua ricchezza, di dolcezze e di dolori, con la “voce granulosa”, la “muscolatura aspra”. Ma anche, “oltre ogni ostinazione” si realizza nei versi quell’equilibrio tra forma e senso, che è la tensione lirica che cerchiamo quando leggiamo la poesia.
Nicola Bultrini
C’era un palmo
tra il vaso basso a pera
e l’altro a forma di cilindro
il varco necessario per parlarci.
Vi ritrovo spostati, sovrapposti
un’unica pancia cannibale
satolli di macigni.
Con carri armati infangati
invadi la cucina
pestando i coriandoli
del compleanno di Gill
in fughe sporche s’insaccano
poi dritti al macero
capovolti da uno straccio.
Qualcuno vola.
Oltre ogni ostinazione
di mani che ruotano a vuoto
la mosca scappa
nella velocità
lascia imprecisi e nudi
quello di cui abbiamo bisogno.
L’occupazione che del salotto
fa un fiore di giglio
aggira le tattiche
e i tracciati di guerra
lo sbuffo di polvere gialla
finché il fiore denuda
è la resa vincente.
Varcare la linea
ricucire il terreno comune
il governo offeso del senso.
Le infermiere coprivano e ricoprivano
e in mezzo a quei gesti tutta la forza
per farti respirare meglio
l’avevi usata per spostare zolle
costruire il pozzo, tirar su gli ulivi.
Teli stesi con le patate ad asciugare
a proteggere gli alberi dalla grandine.
Svelamento e ammanto:
così si spiega la vita.
Sopraggiunge un’aria totale
di un presente spesso
un anticipo di strati scivoloso
l’epoca di un sapere niente
e voler sapere niente
che cuce le evidenze.
Queste gambe
i suoi seni scesi
mai perlustrati.
Aspetto non so bene cosa
regalo ore
senza concentrazione
solo un richiamo
a stare nell’odore di prato tagliato
dentro il design ospedaliero
coi colori pastello
e la sacca rosso amarena del drenaggio.
La voce cambia
più ruvida, si abbassa.
È il tranello del silenzio prolungato
o di aver consumato tutto della giungla
dove l’aria suona.
Basterà per questi pochi metri, poi
bisognerà chiedere alle bestie
che il recinto hanno saltato,
masticato
per ore ripetuto
senza stancarsi
le litanie dello stare insieme.
Ai siluri della guerra
le donne rispondono coi canti
e neonati sotto neon improvvisati.
Migliaia di corpi si impastano nei tunnel
dormono e cucinano.
Vorrei rammendare gli scheletri del mondo
con la carne della mia carne
cingere i palazzi decaduti.