Mascula Sappho: donne che scrivono versi nel mondo antico

Nell’epistola I 19, dedicata a riflessioni letterarie, il poeta latino Orazio, noto anche ai non addetti ai lavori per il celebre carpe diem (alias il v. 8 dell’Ode I 11, A Leuconoe), e protagonista, insieme a Virgilio, di una straordinaria pagina della letteratura latina di età augustea, prova a spiegare le sue scelte in termini di riferimenti e gusti poetici: controcorrente rispetto alla più parte dei contemporanei, lascia da parte le composizioni all’ultima moda, quelle dei poetae novi, per riscoprire il gusto più deciso dei ritmi dei lirici greci. In particolare, ai versi 25 e seguenti, esplicita una decisa preferenza per Archiloco, autore di giambi ed epodi – ma non solo –, per Saffo e per Alceo, della cui diffusione a Roma afferma con decisione di essere stato l’artefice. E c’è un verso, in questa fase del testo che, in particolare, suscita la mia attenzione: v. 28, Temperat Archilochi musam pede mascula Sappho: nell’illustrare il proprio criterio di rielaborazione di un modello poetico, Orazio, dopo aver affermato che, pur avendo ripreso il ritmo e la misura del verso archilocheo, non ne ha però condiviso termini e temi, sostiene che anche mascula Sappho ha operato similmente. Pur senza volerci addentrare in un commento specialistico, e fermo restando il valore predicativo dell’epiteto, resta il fatto, assai eloquente, che nella caratterizzazione di quella che è forse la più celebre autrice di versi del mondo antico, colei che ha saputo esprimere con una straordinaria potenza emotiva l’universo privato del sentire femminile, ha voluto definirne la tempra poetica con un termine provocatorio come mascula. Il disagio suscitato negli interpreti è tangibile in alcune omissioni o caute traduzioni: in qualche caso sul termine in questione si glissa del tutto, altrove si preferisce una lettura metaforica. Ma, al di là di qualunque possibile lettura, è con l’epiteto maschia che Orazio ha voluto definirla. Il termine ha, in effetti , una sua asprezza e non incontra molto. Suona come un pugno nello stomaco: sensazione brusca e sgradevole che, forse, il Venosino intendeva suscitare nel gregge di poetastri da cui proprio nella I 19 prende, una volta per tutte, le distanze. Tornando, invece, a Saffo, sposterei l’attenzione di chi legge su un altro punto, a suo modo interessante per chi viva in Italia in questo primo quarto di millennio e che, occupandosi di critica letteraria, si trovi un giorno sì e l’altro pure a interrogarsi su una questione delicata per alcuni, risibile per altri. Oggi molte autrici di versi rivendicano per sé il nome di poeta vs quello finora consacrato dalla tradizione letteraria di poetessa; al netto della discussione nel merito, che qui non si intraprende1, potrà forse risultare interessante qualche riflessione linguistica. Il termine poeta, latino prima ancora che italiano, nasce da ποιητής, uno dei nomi maschili della prima declinazione greca. Per il pubblico non specialistico, diciamo solo che la prima declinazione dei nomi del greco antico comprende molti femminili e pochissimi maschili. Tra questi ultimi, termini come “cittadino”, “marinaio”, “soldato”, “comandante”, “giudice”, “timoniere” e, per l’appunto “poeta2”, per i quali un corrispettivo femminile manca, almeno finché non si realizza la possibilità che si riferisca ad una categoria dell’esistente. Al tempo di Saffo, quindi molto prima che Orazio la ricordasse nei suoi versi, il femminile di ποιητής non risulta attestato, ma qualche secolo dopo si diffonde il termine ποιήτρια, sulla cui evoluzione, almeno per ora, le fonti forniscono davvero pochissimi elementi. E proprio così3 Saffo viene definita in due passi della letteratura latina: nelle Heroides di Ovidio (15, 183 Grata lyram posui tibi, Phoebe, poetria Sappho)4; e nel trattato De metris di Terenziano Mauro. La stessa espressione, tuttavia, veniva già usata in contesto e con intento assai diverso in una celebre orazione di Cicerone: nella Pro Caelio, infatti, poetria viene definita la donna che avrebbe adescato l’imputato con le sue arti seduttive e che, tuttavia, riusciva a raggirare chiunque proprio in virtù della sua abilità creativa. Per una curiosa coincidenza, si trattava di Clodia, proprio quella Clodia per cui bruciava di passione Catullo, che, nel dedicarle i suoi meravigliosi versi, volle, però , chiamarla Lesbia, in onore di Saffo, la donna di Lesbo che aveva reso eterna e straordinaria la poesia erotica.

 
 
 
 

1 Chi voglia concentrarsi su questo aspetto potrà trovare interessanti le sintetiche ma efficaci osservazioni di Alessia Pizzi sul blog https://www.poetessedonne.it/

2 In realtà, lo stesso termine greco che qui rendiamo con “poeta” copre un capo semantico ben più ampio, tanto da poter esprimere anche il significato di “autore” “creatore” e “operaio”.

3 In latino, il termine diventa poetria.

4 “Grata, o Febo, a te ho offerto la lira, io, la poetessa Saffo”.