Peepshow di Giovanni Turra


da Pordenoneleggepoesia
 

La produzione poetica di Giovanni Turra, contenuta quasi per intero in Peepshow. Poesie 1996-2023, uscito a settembre ’24 per la collana Gialla Oro di Pordenonelegge, delinea un percorso di scrittura piuttosto eterogeneo, dominato dalla raccolta più nota, Con fatica dire fame, che comprende circa la metà dei testi raccolti e dispone di una costruzione complessiva più strutturata ed evidente rispetto ai libri o sillogi precedenti (Planimetrie, L’assedio e PEEPshow) e agli inediti de Il bosco degli spiriti.

E tuttavia se, archiviando questo dato, scorriamo i testi senza curarci della provenienza, possiamo accorgerci fin da subito della notevole tenuta formale di tutte le prove di Turra e, il che è forse più interessante, dell’agglutinarsi delle poesie intorno a certi nuclei tematici, come quello della torsione del corpo (già perfettamente tematizzata nel testo incipitale di Planimetrie) o della sua disarticolazione (ecco le poesie sulle mani, sui denti o sui piedi, notate a suo tempo da Franca Mancinelli1), dell’incomunicabilità (esemplificata nella vita di condominio) o del malessere che da psichico diventa fisico, e spesso descritto per analogia col mondo animale.

Sono proprio questi spunti, come piccole ossessioni, a costituire il collante più significativo del volume. Alcuni testi sembrano addirittura rispondersi a distanza di anni, come ad esempio Gli occhi avanti a sé (p. 117) e È di riposo lo stradino (p. 153), che ritraggono una medesima figura di fragile vecchietta, con quello che Cecchinel ha definito «un singolare miscuglio di solidarietà e cinismo»2, proprio dello «spirito nordestino»; o Superfici (p. 74), che fa il paio con Ci porremo di fronte (p. 152), dove l’autore sembra ripensare il posizionamento di due corpi che, dopo essersi dati a lungo le spalle possono «finalmente» guardarsi in faccia, conoscersi non da una superficiale «orografia» ma dai «lineamenti» sfocati («mobili e molli») che smettono di coincidere con i confini invalicabili di una gabbia.

Il progressivo sviluppo di questo materiale tematico, continuamente rimaneggiato, e i sottili mutamenti attraverso i quali è andato definendosi lo stile del poeta3, è quanto mi propongo di mettere in luce in merito a tre poesie, la cui lettura mi sembra possa costituire uno spunto per addentrarsi nel laboratorio di Giovanni Turra. La prima è da Planimetrie (1996-1997):

 
Dopo l’incidente sono in quattro
a metter mano dappertutto.
Un inventario di reliquie,
care cose pignorate:
la pignatta con le garze,
l’astuccio, le piante grasse.
 
In terra un carico di libri,
se tiene nei gangheri il battente
o viene via,
aperto sopra la finestra.
E uno sgabello scalciato in là,
con un nodo in cima.

Andrea Cozzarini

 
 
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