Un giorno il filosofo Favorino, che era nato nel sud della Gallia ma viveva e insegnava a Roma, decise di fare visita a un importante senatore, divenuto da poco padre, seguito dal corteggio dei suoi allievi. Ad accoglierlo, però, non fu la moglie dell’aristocratico neo-papà, ancora provata dalle fatiche del parto, ma la madre di lei, alla quale, dopo gli auguri di rito, Favorino chiese se il bambino sarebbe stato allattato al seno materno. A dire il vero, non è questa la prima cosa che ci si aspetta di sentirsi domandare appena diventate nonne, ma la donna non si scompose e replicò che il bambino sarebbe stato affidato a una balia, perché la madre era troppo stanca per provvedere in prima persona al suo allattamento. Favorino, che sembrava non aspettare altro, si lanciò allora in un lungo sermone a metà strada tra un’invettiva contro le donne che vengono meno ai loro doveri materni e una dotta spiegazione sull’origine e la funzione del latte.
Il punto chiave del discorso di Favorino, giunto a noi grazie al suo allievo Aulo Gellio, sta nell’idea secondo cui il latte è molto più che un semplice nutrimento, indispensabile per la crescita del bambino: per suo tramite, quello che passa nel nuovo nato è infatti l’identità stessa dei suoi genitori, quello che noi chiameremmo il loro codice genetico. Il latte proviene infatti dal sangue della madre, quello stesso sangue che ha nutrito l’embrione nell’utero e che dopo la nascita sale in direzione dei seni e va incontro a un processo di riscaldamento che gli conferisce il suo caratteristico colore biancastro. Una volta affidato a una balia, specie poi se si trattava di una schiava, come spesso accadeva nel mondo antico, il bambino avrebbe finito dunque per sviluppare a sua volta una mente da schiava, succhiata insieme al latte della sua nutrice. Una prospettiva inaccettabile per qualsiasi uomo di nascita libera e ancor meno per il figlio di un senatore di Roma.
Favorino, però, era un uomo di cultura a tutto tondo e nel finale della sua filippica trova il modo di affiancare agli argomenti di carattere scientifico una raffinata citazione virgiliana. Alla sua già frastornata interlocutrice, il filosofo ricorda quella volta in cui la regina Didone si rivolge in preda all’ira a Enea, sul punto di abbandonarla dopo aver intrecciato con lei una lunga relazione sentimentale, e lo accusa tra l’altro di mentire quando dichiara di essere nato dalla dea Venere: a porgere all’eroe troiano le loro mammelle erano state semmai le temibili tigri dell’Ircania, una regione brulla e selvaggia nei pressi del mar Caspio. Enea, insomma, era stato nutrito da un animale che la zoologia degli antichi considerava particolarmente aggressivo e feroce; ed è chiaro che Virgilio non avrebbe messo in bocca a Didone quelle parole se non avesse condiviso anche lui l’idea che attraverso il latte assunto al momento della nascita il bambino assimila i tratti caratterizzanti di chi lo ha nutrito, come Enea aveva ereditato dalle tigri l’insensibile freddezza che stava dimostrando di fronte alla sua donna.
Del resto, Virgilio e Favorino non erano i soli a pensarla così, perché le prodigiose virtù del latte giocano un ruolo di primo piano anche nel mito. Dell’eroe Habis, ad esempio, si diceva che fosse particolarmente rapido nella corsa per aver succhiato da bambino alle mammelle di una cerva, che gli aveva trasmesso le sue qualità di animale agile e scattante. A sua volta, Atalanta era stata abbandonata dal padre in una remota foresta dove a prendersi cura di lei era stata un’orsa, animale sacro ad Artemide, ed era dal latte di quell’animale che derivavano la sua passione per la caccia e il suo incrollabile attaccamento alla verginità, come vergine era la stessa Artemide. Quanto a Romolo e Remo, anche nel loro caso è chiaro che il coraggio di cui avevano dato prova sin dal momento in cui erano venuti al mondo dipendeva anche dal fatto di aver succhiato il latte di una lupa: un animale che tra l’altro nel mito romano era sacro proprio a Marte, dio della guerra e padre dei due gemelli.
Va detto però che questo motivo, impugnato dalle mani sbagliate, poteva ritorcersi contro gli stessi Romani: i quali, secondo il loro arcinemico Mitridate, all’animale che aveva allattato i loro progenitori dovevano il proprio animo feroce e insaziabile di sangue, in tutto identico a quello di un lupo. Un’affermazione velenosa, ma scientificamente impeccabile e che certo il burbero Favorino avrebbe condiviso senza difficoltà.